La prima scena si gira a Roma nell’aprile del 2015 durante le esequie di Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, comunista e promotore della legge che diede all’Italia un sistema sanitario nazionale pubblico. In questa scena Massimo D’Alema fissa stremato e atterrito la salma di Giovanni Berlinguer. Terreo in volto, D’Alema conserva tuttavia un ritegno o meglio ancora un durezza che potremmo definire politica. Uno stare nelle cose obbligato prima di ogni altra cosa da un pensiero coerente e coercitivo insieme. Un’idea precisa, un rigore ideologico si sarebbe detto un tempo e che tuttavia, nonostante gli anni, i vizi e le complicazioni, tutt’ora, proprio quando è il cuore a subire i colpi più forti, si rivela in tutta la sua spettrale e insieme pietrificante evidenza.
Nella seconda scena invece siamo a Parma, davanti al centro commerciale Torri, da fuori si vede l’insegna di Unieuro, Banca Monte Parma, Ipercoop, insomma le solite cose. Un centro commerciale un poco triste, a tratti quasi spelacchiato, ricorda un vecchio deposito da borsa agricola; all’interno anche una galleria con 40 negozi. Lo strillo del centro commerciale dice che da trent’anni sono il simbolo di un’architettura d’avanguardia.
L’architetto di questo poco sorprendente centro commerciale è Aldo Rossi, quello della caffettiera a cupola che oggi tutti dicono che è scomoda e di altre architetture che sono bellissimi giocattoli enormi e a volte brutte case e brutti monumenti.
Aldo Rossi è stato il primo italiano a vincere il Premio Pritzker e tra le altre cose e case ci ha lasciato dei bellissimi disegni coloratissimi dove il suo pensiero progettuale sembra finalmente trovare maggiore comprensione nel contesto. Certo si dirà che è tutto su carta eppure nulla come i suoi disegni e come certe splendide giornate di sole sembrano rivelare al meglio un genio scintillante come il suo, peccato solo verrebbe da dire che come nel caso della caffettiera l’uso, il quotidiano impedimento di certe intuizioni maledette, l’assurda collocazione di certe forme e di certi colori, insomma la perdita di prospettiva che il quotidiano malessere e incespicare obbliga tutti noi, ci porti a non amare più quanto si pensava stabilmente e fortemente abitato nel nostro cuore e nel nostro sguardo un tempo fermo e deciso.
Nella terza scena abbiamo invece un fotogramma da César et Rosalie film di culto di Claude Sautet del 1972 che in Italia abbiamo avuto la fortuna di poter vedere al cinema con il brillante titolo di È simpatico ma gli romperei il muso. Oltre a Romy Schneider protagonisti anche un istrionico Yves Montand ed un essenziale e affilato Sami Frey (tra i più grandi attori francesi, basti ricordare il suo lavoro attorno a Je me souviens di Georges Perec).
Il fotogramma ritrae Romy Schneider bellissima ed esausta appena uscita dall’auto finita fuori strada e guidata dall’imprudente Yves Montand durante una sfida di nervi e di punta-tacco proprio con Sami Fray. La morbidezza seria e consapevole di Romy Schneider in questo fotogramma di César et Rosalie è iconica di un’interpretazione tra le più formidabili della sua carriera.
Una donna in perenne disequilibrio tra la sicurezza e l’incertezza, tra la tranquillità vergata però da follia di Yves Montand (César) e l’opposto propostogli da Sami Frey (David). E in questa scena quando ancora tutta la vicenda deve ancora narrarsi Rosalie sembra prendersi una pausa, stirarsi le braccia, la schiena e prendere fiato. Fermarsi restando però all’interno del discorso, senza interromperlo mai e il suo entrare e uscire nella vicenda sarà la vera chiave dell’esistenza della relazione a tre con César e David, una morbidezza che si oppone alla durezza della volontà e dell’amore creduto e posseduto allo stesso tempo.
Un ritratto di donna che mostra nel 1972 una chiave della modernità che solo con la fine del Novecento sarà sempre più evidente. La contraddizione ossia di un tempo che si spinge a tutta forza e ideologicamente verso un futuro, qualunque esso sia (non conta), ma attraverso una forza tradizionale, vecchia e in poche parole patriarcale. La donna in emancipazione diviene così in ogni suo uso e forma una sorta di cuscinetto della modernità che rende agibile uno sforzo enorme quanto stupido verso un futuro imprecisato, ossia la modernità stessa.
Infine nella quarta scena – inutile riproporne l’immagine – abbiamo il corpo di Aldo Moro rannicchiato in una Renault 4 rossa in via Caetani. Il corpo del presidente della democrazia cristiana è ranicchiato, pare addormentato si disse allora. (molto bene ne ha scritto Marco Belpoliti sia attorno a questa scena e sia attorno alla foto iconica quanto emblematica).
Queste quattro scene o se vogliamo queste quattro immagini sembrano non legarsi per nulla le une alle altre, potrebbero essere state prese a caso e probabilmente non sarebbe cambiato molto se non fosse per l’ossessione di chi scrive, tuttavia è proprio la distanza e la casualità di queste immagini o meglio ancora di queste impressioni che rendono l’idea di un discorso spezzatosi quarant’anni fa e da allora sempre più ingarbugliatosi.
Un discorso pubblico e intimo insieme in cui lo sguardo privato sul mondo, quello che parte dalla persona amata e che arriva fino alla buca elettorale diviene foriero di confusione e vere e proprie lucide allucinazioni. Uno specchiarsi simbolico aspro e molte volte inconcludente. Un discorso che vede una sostanziale incapacità di fermare le immagini, o meglio la pretesa che le immagini si fermino e stiano dove il pensiero è riuscito a cogliere la prima o la più opportuna delle infinite rifrazioni possibili.
Fermare le immagini è sicuramente un modo utile per ritrovare la bellezza e anche per definirne la forma, ma al tempo stesso anche un modo per tradirla e ridurla ad una cosa inconsistente se non a tratti malvagia. Se Massimo D’Alema esprime al meglio proprio nei suoi limiti e nei tanti sbagli una storia politica, culturale e sociale splendida e al tempo stesso durissima così la sua immagine ritrae una fascinazione ammaccata dal tempo, ma a lui preesistente.
Se oggi va per la maggiore la tendenza a volere entrare nella Storia, un tempo era invece più importante appartenere ad una storia e chi ci riusciva poteva usufruire del fascino che quella storia già conteneva, tuttavia il problema era la forma di sé, quel sospiro a cui invece Romy Schneider sa dare forma.
E lo stesso è avvenuto per Aldo Rossi amatissimo da architetti e no e oggi in sostanza odiato e dimenticato: quella che un tempo era lucente precisione oggi ha i contorni dell’erba di periferia e dell’ingenuità e poco della grandezza ideologica. Quello che pareva importante in Luigi Nono oggi è solo l’orpello di un’opera comunque fondamentale per la musica contemporanea e così ci potremmo muovere ancora con molte altre immagini.
Ma è l’ultima quella che conta di più per noi oggi, è il corpo di Aldo Moro sempre presente da quarant’anni e che tenta con indicibile durezza di spiegare il senso di quell’uccisione che è oltre che un’assassinio politico anche un errore di sguardo comune, l’errore di un accecamento misto a gioco e arroganza, spregiudicatezza e passione purissima.
Quel corpo come il tono dolente della voce di Aldo Moro ci raccontano infatti di una necessità che non sappiamo più assolvere da quarant’anni, un compito che Moro seppe rappresentare fin che gli fu possibile, quello del senso della misura. Un onere portato con sbigottita indolenza dallo statista pugliese eppure fondamentale proprio per temperare un carattere durissimo e assurdo che attraversa l’Italia: una sorta di patria dello scompenso perenne, della fissità assoluta.
Già perché il senso della misura, non va inteso come una sorta di moderazione beghina e china, ma come un movimento utile alle cose come alle biografie a cui una sorta di incantamento testardo e ottuso da sempre in Italia si oppone. Aldo Moro non era da questo affaticato perché era ben conscio che tutto ciò era necessario al nostro particolare motore: ottusità e moderazione, quasi una sintesi della storia contemporanea italiana.
Eppure non aver colto nessuno dei segnali, non aver spostato un poco lo sguardo dalla foto alla pellicola, dalla fissità del corpo al movimento dell’attorno ci ha condannati ad una durezza inutile, ad una sofferenza insensata, ad un 3% ridicolo e ad un 18% patetico.
E dire che sarebbe bastato guardare meglio come scivola il vestito sulle spalle di Romy Schneider mentre sbuffa annoiata, ma per nulla irritata. E dire che sarebbe bastato non prendersela troppo con il peso insensato del coperchio della caffettiera e magari bere meno caffè e ridere di quell’oggetto inutile come seppe fare e così bene spiegarci Bruno Munari che come Aldo Moro seppe capire la bellezza del movimento e del suo effetto e non quella dell’occhio fisso, perso e quindi oggi sappiamo tristemente colpevole.
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