di Virginia Fattori
Brigatista: «Allora lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Catani che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?»
(dall’intercettazione telefonica registrata dalla polizia il 9 maggio 1978)
L’affaire Moro di Leonardo Sciascia esce nel settembre del 1978 per Sellerio (l’autore avrà con Elvira Sellerio un rapporto non solo lavorativo che lo porterà a grandi successi, ma anche di sincera amicizia). Nello stesso anno il 16 marzo le Brigate Rosse rapiscono l’Onorevole Aldo Moro in Via Fani, a Roma, un fatto che sconvolgerà l’Italia intera e che condurrà Leonardo Sciascia alla riscoperta di un personaggio tanto discusso.
L’affaire Moro è un testo di natura polimorfa, difficile da categorizzare: un pamphlet, uno studio di documenti e una reinterpretazione letteraria di dati di cronaca nera (sempre cari all’autore). Non stupisce dunque come per Sciascia la letteratura sia sempre stata un doveroso impegno per misurarsi con le pieghe più riposte della realtà umana e poetica, un impegno necessario a smascherare il potere. Quest’ultima una«parola spaventosa» come la definì Moro in una delle sue lettere da prigioniero: ed è su questa parola, con decisa contrapposizione polemica e politica, che Sciascia costruirà tutta la sua produzione letteraria.Ma per imbastire il testo non furono sufficienti le sole lettere e la sola cronaca, per ricostruire la figura di Aldo Moro l’autore si fece aiutare da Giuseppe Giacovazzo, un ex collaboratore del politico e fu proprio grazie a questa “corrispondenza” che Sciascia riuscì a imbastire un filo dialogico con il suo protagonista.
Come in Toto Modo, uscito nel 1974, anche in questo testo Sciascia si prenderà gioco del partito comunista, della chiesa cattolica e delle mafie, i veri dolori della sua “sicilianità” con i quali si scontrerà sempre e che sempre muoveranno i fili delle sue narrazioni.
Anche Paolo Squillacioti parlerà di questo testo, definendolo un libro incredibilmente problematico, una fonte inesauribile di domande più che di risposte (Giuseppe Traina in un saggio su Gesualdo Bufalino, grande amico di Sciascia, ha scritto: «La grandezza letteraria (e morale) di uno scrittore, […] si misura considerando innanzi tutto l’eredità che lascia agli scrittori successivi e soprattutto ai lettori: la sua capacità di parlare ancora, post mortem […] Parlare ovvero sollecitarne le risposte»). Queste furono infatti sin da principio le intenzioni dell’autore: non tanto ricostruire la verità sulla vicenda del rapimento, quanto più interpretarla letterariamente e umanamente. Nell’Affaire Sciascia ricerca quindi una verità letteraria più che una verità storica, ed è esattamente questo che i lettori devono aspettarsi nella lettura sua lettura.
Nel momento in cui l’autore inizia a scrivere il testo le lettere rese note dai e ai giornali sono poche: tutte quelle recapitate infatti furono rese pubbliche nell’ottobre del 1978 (L’affaire Moro esce i primi di settembre dello stesso anno), mentre tutte le lettere scritte furono ritrovate solo nel 1990 durante dei lavori nel covo brigatista di Via Monte Nevoso a Milano. Dunque Sciascia al momento della composizione era a conoscenza delle lettere già pubbliche, ma alcune di queste, in particolare quelle rivolte alla famiglia lo colpirono per il tratto umano che avrebbero ulteriormente messo in luce. Fu proprio il “fattore umano” che spinse l’autore a scrivere della vicenda, dopo aver sentito un dovere religioso (di una religiosità civile, chiaramente) di riscattare il prigioniero e vittima Aldo Moro.
La Democrazia Cristiana è stata per Sciascia il grande contenitore della sofferenze della sua amata Sicilia. Tuttavia, qui l’autore non tenta di leggere il Moro politico, bensì il Moro che il Leviatano Democristiano ha sacrificato per poter continuare a vivere nella sua immortale presenza “sottomarina”. Sciascia non dimentica comunque di ricordare la natura del soggetto: Moro era un professore, che probabilmente non avrebbe mai pensato nella sua vita di trovarsi in una situazione tanto drammatica da richiedere così tanto eroismo.
Nasce in lui, dunque, una solidarietà nei confronti del politico democristiano in quanto prigioniero e in quanto rinnegato dai compagni di partito, gli stessi che nel momento del bisogno si sarebbero dovuti alzare e dichiararsi pubblicamente suoi “amici”, salvandolo dal suo destino.
Di questo testo parlerà anche Adriano Sofri che pur pronunciandosi con le migliori intenzioni incappò in un piccolo errore di interpretazione. Egli infatti identifica fin da subito Sciascia e Moro attraverso una profonda affinità dipendente dal loro essere meridionali, intellettuali e per questo disincantati, poco fiduciosi nell’agire umano contro l’immanenza della realtà. Chi potrebbe tuttavia negare ad Aldo Moro l’assoluta fiducia nel riformismo della sua azione politica? E ancora, chi potrebbe negare invece a Sciascia un’indiscutibile fiducia nell’azione letteraria e nella sua capacità di influire sulla vita e sul potere?
Sciascia sentì anche il dovere di riscattare l’autenticità delle lettere di Moro, giudicate diverse dallo stile dell’Onorevole, e immediatamente tacciate di essere inautentiche. Lo stesso Moro ne parlò in una lettera del 27 aprile scrisse: «Perché questo avvallo alla pretesa mia non autenticità?». Moro plasmò la lingua della DC, con il suo indiscutibile carisma insegnò ai compagni di partito a parlare da democristiani stabilendo lui per primo un nuovo codice comunicativo per il partito. È indiscutibile che la grafia e lo stile usati nelle lettere dall’Onorevole siano effettivamente differenti rispetto quelli conosciuti mediaticamente, e per questo Sciascia sottolinea ancora una volta, stupito dalla necessità dell’appunto, la reale condizione umana e solitaria di Moro.
Sul suo linguaggio completamente nuovo […] ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigiorniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata. (p.17)
È questo uno dei “più grandi misteri” del caso. Che qualcuno le avesse scritte per lui, imitandone forzosamente la grafia? In tanti si espressero sulla vicenda inerente alle lettere e al Memoriale: in un articolo dell’Espresso del 15 novembre del 2019 lo stesso Marco Damilano riporta la vicenda che interessò anche la grafologa Antonella Padova oltre che il medico psico-grafologo Tonino Bellato al quale Moro nel 1970 chiese aiuto per rendere la sua grafia più comprensibile ai suoi collaboratori (scrivendo lui a mano e delegando la battitura a macchina). Tuttavia questi elementi erano sconosciuti a Sciascia nel momento della scrittura dell’Affaire: per sostenere la sua tesi di autenticità questi utilizzò strumenti ermeneutici in grado di mettere in evidenza, tra le altre cose anche la dimensione temporale. Sciascia infatti sottolinea a più riprese, anche in interviste e interventi successivi alla pubblicazione del libro, come la scrittura, sia per Moro che per i carcerieri, richiedesse del tempo, il tempo di scrivere, ma soprattutto il tempo necessario per prendere tempo.
Così cadde il velo e Moro si presentò al pubblico spogliato delle sue vesti mediatiche. Sciascia sottolinea gli errori di interpretazione che furono fatti dai media e dai politici riguardo le lettere del democristiano. L’autore opera su queste non tanto da un punto di vista filologico,ma soffermandosi con una particolare attenzione sulle parole usate sia dal prigioniero che da dagli altri uomini del potere. In particolare egli si concentra su una frase scritta dai brigatisti ai democristiani, presa in considerazione anche dai giornali, «eseguendo la sentenza». Eseguendo è un gerundio, un modo verbale che esprime una dilatabilità del presente e che ha permesso a Sciascia e ad altri di articolare su essa un valido sistema interpretativo, in grado di evitare le soluzioni più veloci, ma di giungere a delle conclusioni attraverso le logiche di correzione che permettono di avvicinare le ipotesi alla realtà, alla verità. Che ad un certo punto le Brigate Rosse avessero iniziato a procrastinare? Nasce così un dubbio nell’opinione pubblica e nell’autore su la possibile nascita di un’ “etica carceraria”: una sorta di Sindrome di Stoccolma al contrario. Insomma, come se si fosse creata una spaccatura tra i brigatisti sulla possibilità di uccidere l’Onorevole.
Risulta inoltre emozionante l’intercettazione riportata integralmente dall’autore tra alcuni brigatisti e la famiglia Tritto (padre e figlio) alla quale fu comunicato dove avrebbero potuto trovare il corpo di Moro. Durante l’intercettazione telefonica gli stessi brigatisti lasciano trapelare emozioni e sbigottimento;
La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. Per quattro colte chiama Moro “l’onorevole” e per due volte “il presidente” […] Quel linguaggio tra il goliardico e da sezione rionale […] è scomparso. (p.134)
Un momento, dunque, in cui carnefice e vittima si scambiano le parti e si rivelano entrambi facce della stessa medaglia, pedine manovrate di un gioco deciso da altri.
Ed è proprio su questa base che si articola uno dei più grandi temi sciasciani, la pietà. Un tema presente in tantissime delle sue opere (una su tutte Il Consiglio d’Egitto, uscito nel 1963, il romanzo antistorico) e che vive letterariamente nella ripresa del tema Manzoniano della Storia della Colonna infame: la pietà come ravvedimento morale, come smascheramento dell’impostura e del complotto. Ma pietà anche come partecipazione al dolore, compassione, la stessa che forse ebbero nei confronti del prigioniero Moro più i suoi carcerieri che i compagni democristiani.Su questa scia Aldo Moro in una lettera indirizzata a Zaccagnini si chiede come sia possibile che tutto il partito volesse la sua morte, come se questa potesse essere la soluzione a tutti i problemi dello Stato. E conclude raccontando la condizione di «fine solitaria» che lo attende, lontano dalla famiglia e senza poter dire addio, senza la consolazione degli affetti (pp. 91-95). La condizione del prigioniero politico condannato a morte. Letterariamente questo brano ricorda sorprendentemente non solo il Manzoni narratore delle infauste vicende del Mora e del Piazza, accusati di essere untori di peste (Storia della Colonna infame), ma anche del Di Blasi, uno dei due protagonisti del Consiglio d’Egitto. Anche lui incarcerato e condannato a morte, e come Moro un uomo che cercò di cambiare lo status quo, rimescolando le carte in gioco, riformulandole. Entrambi, a loro modo e nella loro epoca, furono dei sovversivi: uno rivoluzionario e l’altro riformista. Entrambi per Sciascia due uomini da salvaguardare, da conservare nella memoria.
E seguendo la strada che Sciascia cerca di tracciare ai lettori anche le lettere in cui parla dei familiari sembrano sottintendere molto altro. In ognuna di queste lettere si può vedere un climax di superlativi con affermazioni sul bisogno che la famiglia avrebbe avuto di lui. Eppure come ricorda anche Sciascia, la sua famiglia, anche nel caso in cui lui fosse deceduto, non sarebbe incorsa in alcun tipo di problema, finanziario o assicurativo.
Un meridionale ai cui figli non manca un lavoro e le cui figlie hanno, oltre al lavoro, un marito; che lascia alla moglie una casa e una pensione e all’intera famiglia un buon nome, si considera come sciolto dal problema della famiglia e in regola con la vita e con la morte. (p.58)
Così l’autore avanza l’idea che Moro abbia voluto sostituire con la parola “famiglia” la parola “stato”: lo stato avrebbe ancora avuto bisogno di lui.
A quarantadue anni dall’uscita dell’Affaire Moro ancora oggi il caso di via Fani fa discutere. E ancora oggi, post mortem, il testo di Sciascia suscita interrogativi e stimola nuove risposte, letterarie e non. E così la letteratura ancora una volta risulta indispensabile per raccontare la storia e i grandi uomini che l’hanno fatta.
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