di Demetrio Paolin
Il 19 ottobre si è tenuto presso la biblioteca della Camera dei Deputati, a Roma, un convegno dal titolo «Non siamo riusciti a far capire cos’è stato per noi» I racconti della violenza politica sull’Italia degli anni di piombo, dove una serie di studiosi, giornalisti e scrittori – tra gli altri cito Angelo Ventrone, Agnese Moro, Isabelle Sommier, Ugo Maria Tassianri, Christian Uva, Angelo Orsini – hanno provato a riflettere sul perché sia difficile raccontare e far comprendere gli anni ’70. Il mio intervento è una veloce panoramica su alcuni dei romanzi e sui meccanismi di finzione che narrano l’esperienza degli “anni di piombo”; in particolare ho insistito sul rapporto tra memoria e finzione e su quello tra vittima e carnefice. Il testo qui riprodotto è il discorso che ho tenuto in quella giornata, il saggio vero e proprio, che verrà pubblicato con gli atti del convegno, conterrà anche precise citazioni testuali e un numero maggiore di riferimenti bibliografici che nelle strette contingenze del tempo che mi è stato assegnato ho dovuto tagliare.
0 - Questo luglio ero alla stazione centrale di Bologna, e cercavo un po’ di fresco fuori nel piazzale delle Medaglie d’Oro. Si avvicina una donna, sulla cinquantina, indaffarata e di fretta e mi chiede che ore sono. Io le dico che è mezzogiorno e lei guarda me, poi guarda l’orologio fermo sulle 10.25. Lascia passare un margine accettabile di silenzio e mi dice: “Ecco, neppure gli orologi sappiamo far ripartire. Siamo veramente un paese di merda”. Quindi gira i tacchi e se ne va, convinta di avermi dato una grande lezione civica.
Questo breve exemplum potrebbe essere la giusta sineddoche per rappresentare un paese che vive una disastrosa povertà di memoria. Basta invece incrociare questo dato con alcune riflessioni di Giovanni De Luna esposte in La repubblica del dolore (Feltrinelli, 2011) per modificare la nostra percezione. Dal 2000 al 2010 vengono istituzionalizzate cinque giornate della memoria, sono ripristinate una serie di festività civili abolite e vengono proposte una decina di giornate delle vittime. Quindi ciò che abbiamo di fronte più che una penuria della memoria è la sua ipertrofia.
La frase di Giorgio Napolitano – “Non siamo riusciti a far capire cos’è stato per noi” – dimostra lo stupore di chi in questi dieci anni ha visto e in parte ha contribuito al moltiplicarsi di “azioni di memoria”, convinto di agire per il bene e invece trovandosi davanti una strutturale debolezza del ricordo. Il cortocircuito tra memoria e narrazione non è sempre virtuoso come chiarisce Primo Levi quando scrive: “Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza?” (I sommersi e i salvati). A prima vista c’è una stretta relazione tra l’affermazione di Napolitano e quella dello scrittore torinese; quest’ultima, però, suona più complessa: intanto perché chiama in causa coloro che l’esperienza l’hanno vissuta (in Napolitano è sottointeso che siano “gli altri” a non capire) e poi perché utilizza il termine comprendere. Comprendere, infatti, indica un gesto più ampio, che mostra e racconta la vastità di un fenomeno, nel tentativo, alla maniera di Sisifo, di dare a chi legge o a chi ascolta l’impressione “di uno studio pacato dell’animo umano” (Se questo è un uomo), che non s’accontenti dell’ovvio, ma che cerchi anche negli interstizi più scomodi. Mi pare invece che uno dei tentativi in atto, almeno da una certa parte della narrativa, di cui vorrei parlarvi ora, sia quello di mettere in atto una riduzione. Ora, per essere chiari, la semplificazione non è un male, se evidenzia lo stridio piuttosto deciso tra ciò che vivo e ciò che ricordo e tra ciò che ricordo e ciò che scrivo.
1 – Dopo le uccisioni di D’Antona e Biagi abbiamo assisto a una nuova fioritura di romanzi che raccontavano gli anni ’70 e il terrorismo, facendo leva su una serie di ipotesi narrative piuttosto codificate. Una buona parte dei romanzi che ho preso in esame sono ambientati in luoghi claustrofobici: covi, case minuscole, cascinali sperduti, ville bellissime ma in disuso. Sono testi da una forte vocazione nostalgica, dove la parola è da intendersi alla lettera ovvero sono romanzi che raccontano il ritorno in un luogo, molto spesso legato giovinezza, e da cui si dipanano i ricordi. Molte volte vengono messi in scena rapporti burrascosi padri/figli, spesso l’io narrante è una voce che gira su se stessa.
Faccio alcuni esempi per amor di carotaggio. In Tornavamo dal mare (Garzanti) Doninelli ambienta il romanzo in una località di mare, dove una donna di mezz’età vive con la figlia una vita tranquilla, segnata da qualche silenzio di troppo, fino a quando non torna a farsi vivo l’uomo, che la protagonista ha amato, e con lui i ricordi di un tempo e della militanza terroristica. In Terroristi brava gente (Marlin Editore) di Sergio Lambiase abbiamo la descrizione di come venivano arredati i covi e la metamorfosi dei covi in pascoliani nidi. Infine c’è il silenzio ostinato del protagonista di AcetoArcobaleno di Erri De Luca, che solo in una casa sperduta ci fa una confessione reticente.
Ciò che m’interessa sottolineare è come queste narrazioni abbiano come unica fonte la memorialistica degli ex terroristi, come il libro di Peci o il memoir della Braghetti (si pensi solo a quando l’ex brigatista racconta di come preparava il minestrone per tutti gli occupanti della prigione del popolo dove era detenuto Moro, per comprendere come questi “ritratti d’interno con terrorista” siano stati assunti a fonti primarie del racconto).
La scelta di usare queste narrazioni come struttura portante dei romanzi, però, non ha tenuto minimamente conto dell’intento “giustificatorio” di tali memorie costruite per mettere in scena un io credibile, che faccia passare in secondo piano gli errori compiuti, creando empatia con il lettore. Tale assunzione delle fonti, in parte a-critica e in parte fascinata, rende monca la storia che i romanzi intendono narrare.
In questo contesto le vittime sembrano sparire. Il romanzo AmiciNemici di Spinato (Fazi) parla del caso Moro. Il testo è costruito come una serie di voci diverse, che raccontano il rapimento, la prigionia e l’uccisione dell’uomo politico. Tra i diversi punti di vista c’è pure quello del presidente del Consiglio. Alcune notazioni stilistiche che, però, mi sembrano importanti. Moro nel romanzo perde il proprio nome. Diventa “il prigioniero” (il fatto che sia il titolo dell’autobiografia della Braghetti deve farci riflettere), scompare come creatura vivente e si svuota e la spia di questo avvenimento sta nelle parole che il prigioniero/Moro pronuncia nel corso del libro.
Proprio l’enorme mole di parole scritte e dette da Moro durante la prigionia parrebbe andare in aiuto di Spinato nella costruzione della sua storia. Negli scritti della prigionia Moro prova a dire se stesso usando e mutuando quella lingua, che come bene notava Pasolini in Empirismo Eretico (Garzanti), trova il suo nucleo espressivo nel potere e nella politica. Tutto ciò che dice Moro, anche nei momenti più intimi, è politico, perché Moro sa che le sue parole verranno lette e interpretate all’esterno; così si spiega il tono oracolare delle lettere più private e quello strettamente tecnico-scientifico del memoriale. Questa ambiguità viene da Spinato completamente svuotata nel romanzo. Spinato ri-scrive le parole del presidente della Democrazia Cristiana, gli dà una forma letteraria e narrativa, trasformando l’uomo in un contenitore. Perduto il nome e pervertito il suo linguaggio, Aldo Moro è una sagoma da tiro a bersaglio e nessun effetto ci fa la sua morte. Questo evidenzia come la vittima nei testi della letteratura del terrorismo sia un semplice obiettivo, un cartone dove, a un certo punto della trama, si scatena il fuoco del terroristi. Assistiamo a una chenosi che non ha nulla di religioso ma è una semplice riduzione della vittima a puro pretesto narrativo; uno slittamento ontologico (mi si passi il termine) dall’essere un uomo all’essere un bersaglio, che rimanda ai protocolli di inchiesta e di pedinamento redatti dai componenti dei gruppi di fuoco, dove solitamente la persona che deve essere uccisa non viene appellata con il proprio nome, ma viene identificata come obiettivo.
La vittima diventa così futile che nel libro di Antonella Del Giudice L’acquario dei cattivi (Alet) assistiamo alla sua scomparsa. L’autrice immagina una villa (l’immaginario claustrofobico) abbandonata nelle nebbie del nordest, dove alcuni ex terroristi si incontrano per progettare un nuovo attentato. Il libro ci riserva, però, un colpo di scena. Si scopre che alla riunione manca una persona. È Eligio, che malato non partecipò all’azione armata che trent’anni prima portò tutti all’arresto. Eligio è atteso al riunione e continuamente evocato. Lui, scampato all’arresto perché non tradito dai compagni, è diventato un magistrato intransigente, che continua – come dice lui stesso – la lotta del gruppo con altri mezzi. I suoi compagni esigono un pegno: Eligio stesso deve essere ucciso per rilanciare la lotta. Eligio accetta questa proposta e sarà lui stesso a fornire ai compagni gli orari degli spostamenti suoi e della scorta per favorirli. Esprime solo un desiderio di uccidere prima di essere ucciso il caposcorta che lo accompagnerà.
Il tentativo della Del Giudice è di consegnarci un finale tragico, che si risolve in farsa, sia per come la storia si sviluppa (non c’è reale scavo psicologico), sia per come viene raccontata (il lussureggiante vocabolario cela una debolezza di trama) e sia per come si conclude. I terroristi non hanno più bisogno di una vittima esterna, ma essa si genera per mitosi dentro la stessa cellula. Siamo quindi al grado zero della presenza della vittima nei romanzi.
2 - Mi sembra importante ora provare ad analizzare in maniera più decisa questa fenomenologia vittimaria, partendo da alcuni dati. Dal 2006, anno di pubblicazione di I silenzi degli innocenti a cura di Fasanella e Grippo, abbiamo assistito all’aumento di pubblicazioni in cui i parenti delle vittime del terrorismo prendono la parola e raccontano la loro porzione di storia. In un certo senso bilanciano l’attenzione che per molti anni le memorie dei terroristi hanno ricevuto da parte dei giornalisti storici e scrittori. Se fossimo in un regime di par condicio politica ci potremmo dire soddisfatti, ma la narrativa ha esigenze diverse e la comprensione di un fenomeno non è la somma di due tensioni opposte. Io ho l’impressione, soprattutto per quanto riguarda la ricezione dell’opinione pubblica, che il racconto della vittima sia utilizzato in modo consolatorio: la storia della vittima è un modo per considerare il fenomeno del terrorismo come momento privato in cui ciò che è stato di quegli anni non viene mai realmente esperito, capito, ma rimane sullo sfondo. La vittima nei racconti dei familiari (è naturale aspettarselo) perde tutta quella ambiguità romanzesca che Girard le riconosce come statuto fondante del suo essere.
Paradossalmente la vittima è il primo ‘indiziato’ del crimine che subisce. Se vogliamo comprendere il delitto dobbiamo in primo luogo indagare la vittima come se fosse il presunto (dal punto di vista narrativo) colpevole. Tale compito non può essere assunto dai racconti dei parenti delle vittime, perché la loro intenzione di scrittura è – alla lettera – apologetica verso i propri cari uccisi. Questa visione agiografia, comprensibile, si presta, però, a essere usata per altri scopi, non sempre cristallini.
Faccio due esempi. Il primo è legato alla titolazione di una legge. È consuetudine che le leggi dello Stato almeno quelle più importanti vengano ricordate con il nome di chi le ha formulate. Ora quando è stata approvata la riforma del mercato del lavoro si è deciso di chiamare il dispositivo in questione “Legge Biagi”. Nella realtà la Legge 30 non è di Biagi, ma si basa sul Libro Bianco, scritto dal giuslavorista, di cui la Legge 30 accoglie parzialmente analisi, intenti e soluzioni.
Siamo davanti a una differenza formale e sostanziale che, però, porta all’impossibilità di muovere critiche a quell’insieme di norme. Infatti chiunque muovesse critiche alla legge verrebbe apostrofato dicendo che una persona è morta proprio in nome di quegli articoli che vengono criticati. Si sancisce insomma una sorta di similitudine tra chi ha criticato e chi ha sparato. Cioè in parole molto semplici: si fa della vittima un uso politico ben preciso, volto a screditare qualsiasi tipo di pensiero critico. L’altro esempio riguarda Alberto Torreggiani, che un fotografo del Corriere della Sera immortala davanti al palazzo di giustizia di Milano nei giorni dell’inizio del Rubygate. Torreggiani, vittima del terrorismo (al di là di ogni valutazione processuale su Battisti), viene presentato come una vittima della giustizia. Da vittima del terrorismo a vittima dei magistrati, si noti come in questa sostituzione del complemento di specificazione ci sia tutta l’aberrazione dei manifesti che accomunavano Br e magistratura.
Se la narrativa non vuole cadere in questa medesima palude, deve fornire una rappresentazione diversa della vittima. Interessanti, in questo senso, sono i libri di Giorgio Vasta Il tempo materiale (minimum fax, 2008) e di Gaja Cenciarelli Sangue del suo sangue (Nottetempo, 2011). Entrambi i romanzi segnano una distanza dalle rappresentazioni precedenti. Nelle pagine di Vasta, che raccontano la storia di una cellula di terroristi quasi adolescenti in una Palermo che s’allarga a essere l’Italia intera, ci imbattiamo in Morana, compagno di classe di Nimbo e degli altri componenti del nucleo armato. Morana è un perfetto capro espiatorio. Fa parte della classe, ma ne è escluso senza un motivo specifico e proprio per questa sua condizione è scelto per essere rapito. Vasta ci descrive il minuzioso pedinamento della vittima. In questa ricognizione abbiamo un momento che fonda la poetica del libro. Nimbo, pedinando Morana, viene scoperto e invitato dall’ignaro amico a salire in casa. Il vedere casa ha un significato simbolico, perché rappresenta l’entrare nell’intimità dell’altro. È come l’attraversamento di una soglia biologica. La vittima non è più vista come una “cosa” da rapire e uccidere ma viene esperita nel suo essere creatura vera: la perlustrazione della casa accresce il sentimento di vicinanza ed estraneità che fa di Morana una vittima esemplare.
Se Vasta si muove su questo piano di ‘ambivalenza’, Cenciarelli nel suo romanzo spinge questa riflessione a livelli radicali. La domanda che ci poniamo chiudendo il suo romanzo è: E se la vittima non fosse un giusto?
Nel Sangue del suo sangue le due vittime entrambe uccise sembrano granitiche nella loro irreprensibilità: la prima è un generale dei Carabinieri; la seconda è un imprenditore astro nascente della politica, cattolico e difensore dei lavoratori. Durante il libro però veniamo a conoscenza di come il generale avesse abusato dei suoi figli. Dell’uomo politico scopriamo come dietro la falsa modestia si celasse un rampantismo senza scrupoli, quello di un imprenditore pronto a tradire la moglie e sottopagare e sfruttare i suoi lavoratori pur d’essere eletto.
La consapevolezza della loro colpevolezza non rende la loro morte meno tremenda, ma come in un finale shakespeariano nessuno è immune da colpe e su di loro cade un silenzio, che costringe noi a sospendere il giudizio.
3 - Credo proprio, muovendomi da questa immagine di vittima meno stereotipata, di poter arrivare alla conclusione del mio intervento, ovvero riflettere con voi sulla possibilità che esista una memoria senza testimoni, dando alla parola la duplice valenza che identifica chi ha visto e chi ha subito. Provo a circostanziare questa mia idea, parlando di due libri, che mettono al centro la figura di Aldo Moro; o meglio il suo fantasma.
Ne Il memoriale della repubblica (Einaudi) Gotor prova a raccontare la nostra storia recente partendo dal memoriale che lo statista scrive durante la sua prigionia. Il libro è interessante, perché la presenza dell’autore non è di mero raccordo tra le parti, ma si espone in quelle pagine a una riflessione biografica. Si ha come l’impressione di vedere un figlio che morto il padre si trova a rovistare nei cassetti della scrivania del defunto, trovando lacerti, parole, appunti che gli si compongono in un quadro diverso da quello che aveva sempre creduto.
Nell’intero svolgersi del libro oltre alla perizia filologica sentiamo un rumore di fondo, di cui non riusciamo a liberarci. L’impressione è che Gotor più che fare i conti con i codici e le minute di Moro, parli con Moro stesso come se avesse davanti il fantasma, proprio come in Amleto quando il padre appare per chiedere giustizia.
In un altro testo, pubblicato dal Saggiatore, Altare della Patria, l’autore Ferruccio Parazzoli riscrive la vicenda narrata nel libro di Giobbe dove la scommessa cosmica di dio e Satana viene giocata su due nuovi ‘giusti’: Papa Montini e Aldo Moro. Il romanzo si muove con abile perizia su due piani, uno fattuale – se così possiamo dire – in cui la ricostruzione dei momenti della vicenda Moro sono precisi, quasi cronachistici; e un altro visionario in cui, ad esempio, assistiamo ad apparizioni di Satana che tenta Montini e Aldo Moro. Anzi si potrebbe quasi ipotizzare che proprio la minuzia dei particolari è ciò che apre alla visionarietà del finale in cui l’autore milanese immagina una scena che accade alla Camera dei Deputati.
Durante una seduta parlamentare lo spettro di Moro entra in scena e s’avvicina alla scranno del presidente del consiglio Giulio Andreotti. Dopo aver pronunciato un discorso profetico per il futuro dell’Italia, mentre il fantasma fa per andarsene, Giulio Andreotti cerca di toccarlo. In risposta a quel gesto c’è un invito perentorio di Moro: “Noli me tangere”.
Il fantasma o meglio lo spettro rappresenta l’entrata in scena della tragedia. Nella tragedia greca, ma anche in quella elisabettiana (pensiamo a Macbeth o come dicevamo ad Amleto), il fantasma non è un personaggio, non ha un vero ruolo narrativo come invece ha la vittima. Anzi lo spettro proprio perché è morto è sciolto dallo statuto di vittima, ma assolve un’altra funzione, che non è tanto estetica quanto morale, ovvero quello di caricare sulle spalle di chi rimane (il personaggio in scena, il pubblico in sala) la responsabilità della verità.
L’invito perentorio di Moro a non essere toccato ha questa pregnanza: “non mi toccare perché il mio essere non appartiene a questa storia, io sono ab solto da tutto ciò: la responsabilità è vostra”.
Tale proibizione fa nascere in me l’idea che esiste un momento nella scrittura, nella ricerca storica, nel giornalismo in cui la memoria, il suo dovere, il tentativo di ricordare si scolla dai testimoni. C’è un momento in cui la materia solida della memoria recalcitra nell’essere intesa come accumulo dei dettagli, non s’addomestica nella ricomposizione degli opposti, e rifiuta il semplice colpo di spugna o la pacificazione. La memoria, come bene spiega Levi, contiene al suo interno il desiderio della semplificazione: “Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. È una ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici; o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi” (I sommersi e i salvati).
Proprio per questo motivo credo che la narrativa debba accettare la sfida di costruire le sue ipotesi come se la memoria fosse data senza testimoni. La mia idea di narrativa ha a che fare con la restituzione della complessità della vita stessa della vittima, che è un ircocervo di colpe, omissioni, sofferenze e silenzi e dolori subiti e fatti subire ad altri, con la descrizione senza pregiudizi dell’esistenza e delle idee dei carnefici. L’approssimarsi alla verità (in questo sono manzoniano e credo che la scrittura di un libro abbia a che fare con il vero e con il bello in egual misura) deve fare a meno dei testimoni. C’è un momento nella costruzione della nostra memoria collettiva, in cui storici, biografi, autobiografi, archivisti e giornalisti cedono il passo a qualcos’altro.
E questo qualcos’altro è per me la finzione e il romanzo.