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“Palermo come Roma”. Berlinguer, La Torre e il Compromesso storico

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Seconda parte del ritratto di Pio La Torre, ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982 assieme a Rosario Di Salvo. Qui la prima parte.

In numerosi scritti e interviste, alcune delle quali selezionate da Franco nell’appendice del libro, La Torre offre la personale e composita valutazione della Democrazia cristiana. Nell’ambito del Seminario sulla Dc, tenutosi dal 7 all’11 maggio 1973, produsse uno sguardo d’insieme paradigmatico sui caratteri e sulle contraddizioni del partito che nel dopoguerra prese le redini del Paese. Ventidue pagine dattiloscritte che anticiparono di qualche mese le conseguenze politiche italiane del golpe cileno, che decretò la fine del governo di Unidad Popular del presidente Salvador Allende, e i tre articoli di Enrico Berlinguer pubblicati su Rinascita fra il 28 settembre e il 12 ottobre 1973. L’analisi di La Torre precorreva la dinamica del Compromesso storico, che in Sicilia si attuò prima che a Roma.

Già nel 1972 l’insediamento in segreteria regionale di Achille Occhetto inaugurò una nuova fase, che possiamo recuperare nei ragionamenti di La Torre. Nell’articolo Le sinistre di fronte alla crisi del Sud (Rinascita, 29 settembre 1972) diagnosticò il malessere, cavalcato dalla destra missina (alle Regionali del 13 giugno 1971 schizzò dal 6.55% al 16.33%; la Dc scese dal 40% al 33%), del  sistema prosperato sulla discriminazione anticomunista e sulla dissennata spesa pubblica, la crisi dell’edilizia che aveva finanziato il blocco sociale e politico democristiano. Individuò nei piani regionali di sviluppo il terreno di aggregazione di un vasto schieramento di forze sociali disponibili a uno sbocco democratico dell’impasse italiana.

Evocativa una fotografia del 1974, che ritrae Berlinguer a fianco di La Torre, il quale sembra sussurrargli qualcosa. La scattarono durante la Conferenza economica per lo sviluppo della Sicilia, in previsione del “Progetto Sicilia”, che divenne la base programmatica a sostegno della politica delle larghe intese. Il preludio a maggioranze di governo che comprendessero il Pci. Nel dicembre 1974 durante i lavori di preparazione del XIV Congresso del Pci, La Torre nel dibattito sulla relazione di Berlinguer:

«(…) In questa situazione anche di fronte al traguardo delle elezioni regionali è necessario che il partito faccia uno sforzo per corrispondere sempre più concretamente al suo ruolo di portavoce degli interessi generali del paese. È anche così che daremo un contributo decisivo anche alla formazione di nuovi schieramenti di maggioranza all’interno della Dc che, battendo posizioni integraliste e antioperaie, permettano l’ulteriore sviluppo del processo unitario e quell’incontro fra le grandi componenti delle masse popolari italiane che abbiamo definito Compromesso storico».

Il Pci voleva distinguersi di fronte a vasti strati delle popolazioni meridionali come forza responsabile, come partito di governo. Il Pci spinse per l’unità delle forze autonomiste, che aveva l’obiettivo di superare il difficile momento a livello nazionale (nel ’75 il Pil segnò – 2.1% e l’inflazione volò all’11%) e nella vita della Regione, mediante l’interlocuzione con la Dc. Una strategia che pagò con l’inversione di tendenza del 1975 e il balzo in avanti elettorale del 1976. In Sicilia l’attenzione democristiana per la proposta comunista si materializzò nel 1974 con la segreteria di Rosario Nicoletti, leader di una minoranza che guardava a sinistra, oltre il Psi. Due accordi legislativi segnarono l’avvicinamento: il «Piano regionale di interventi per il periodo 1975-1980» e il «Programma di fine legislatura», approvato il 20 novembre del 1975.

Piersanti Mattarella, che nel 1971 aveva assunto la carica di assessore al bilancio, ricoperta poi per sette anni, era elemento proattivo nell’intento di affermare una nuova linea politica meridionalistica, che non poteva prescindere da una Democrazia cristiana diversa. Tre le priorità: smantellare il metodo dell’intervento speciale; attuare il decentramento delle funzioni regionali agli enti locali; salvare il partito dal degrado (congressi illegali, tesseramento falso, atti di sopruso continui) documentato dal Libro bianco del 17 novembre 1970, firmato tra gli altri da Reina, Nicoletti e inviato a Roma. «Rivolta contro Gioia nella Dc, si chiede alla Direzione di sciogliere gli organi locali», titolò L’Ora. Sulla questione comunista seguì in modo organico l’orma del proprio maestro, Aldo Moro, accogliendo la richiesta di ascolto delle istanze del Pci e si accostò alle posizioni di Nicoletti. La Torre ne La questione comunista e la Sicilia (L’Ora, 20 settembre 1974) sottolineò la preparazione, l’intelligenza e le aperture di Mattarella, nonché gli ostacoli:

«(…) Per uscire dalla crisi data la sua estrema gravità e profondità si impone una energica azione di risanamento e di vita nazionale. Tutti ormai riconoscono (ecco un punto acquisito nel dibattito) che a tale azione di risanamento e rinnovamento debbono contribuire tutte le forze che si riconoscono nel patto costituzionale. L’onorevole Mattarella per esempio è d’accordo fino a questo punto. Il dissenso nasce quando si tratta di precisare cosa si intende per contribuire e sui modi di contribuire. Ma noi non intendiamo affatto appiattire la dialettica facendo sparire i confini tra maggioranza e opposizione. Proponiamo di dare vita a una nuova più ampia e rappresentativa maggioranza a cui certamente si contrapporrebbe un altro schieramento di opposizione, di destra».

A Palermo nel 1970 era cambiato qualcosa anche nella Chiesa con l’ascesa di Salvatore Pappalardo, nominato cardinale nel marzo del 1973, inequivocabile nella condanna senza appello della mafia e delle sue propaggini. Nella relazione del maggio ’73 sopracitata, La Dc e il Mezzogiorno, La Torre fece notare la contraddizione primigenia di un partito che, pur richiamandosi all’ispirazione popolare contadina sturziana, difese il clientelismo e il trasformismo del blocco agrario. Anch’essa, come gli articoli di Berlinguer, va collocata nella gravità del contesto internazionale, delle ingerenze convergenti dei due blocchi, e nel quadro dell’eversione stragista interna. A distanza di pochi giorni, il 17 maggio 1973, si consumò la strage alla Questura di Milano. E già nel 1971 l’omicidio del magistrato Pietro Scaglione fu sintomo del disequilibrio del sistema e della stagione di delitti eccellenti a venire.

Nelle parole di La Torre intorno alla riforma agraria si concretizzò il ricatto da destra. Analizzò i flussi elettorali democristiani, che nel Mezzogiorno si rigonfiavano quando l’occhio strizzava a destra, verso gli interessi dei ceti possidenti. Nella sua lettura restò poco del programma avanzato di riforme con cui la Dc si era presentata all’Assemblea Costituente. La direzione degasperiana si limitò a farsi garante della restaurazione capitalistica sotto l’ombrello statunitense e degli interessi della borghesia. Un passaggio che coincide nell’argomentazione berlingueriana dell’autunno ’73:
«(…) Sappiamo bene che la politica di rottura dell’unità delle forze popolari e antifasciste perseguita dai gruppi conservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia cristiana – una politica che il paese ha pagato duramente – ha interrotto il processo di rinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a chiuderlo. Un esteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle coscienze a tutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi anni, ha ripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme nuove, certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si erano unite nella Resistenza. Il compito nostro essenziale – ed è un compito che può essere assolto – è dunque quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento e rinnovamento democratico dell’intera società e dello Stato la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. Solo questa linea e nessun’altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori e reazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile».

Al tramonto dell’era De Gasperi il clientelismo degli apparati pubblici, foraggiato dalla politica dell’intervento straordinario per fronteggiare l’arretratezza meridionale, soppiantò l’influenza dei vecchi notabili. La Torre riepilogò i numeri spaventosi della colossale e improduttiva spesa pubblica, dissipata dagli strumenti (dalla Cassa del Mezzogiorno in giù) atti a determinare la progressiva compenetrazione della Dc con l’apparato dello Stato. Alla Dc lanciò una sfida costruttiva per uscire dalla crisi, identificando nella matrice popolare democristiana l’opportunità di un dialogo senza cedimenti su un terreno costituzionale e antifascista. Alla Dc, che pretendeva ancora di essere l’unica architrave della democrazia italiana, chiesero di rimediare alla negazione di quel processo di rinnovamento, che si sarebbe realizzato mediante l’incontro con le masse guidate dai comunisti e dai socialisti.

L’obiettivo era duplice: continuare a lavorare per mutare il rapporto di forza elettorale e al contempo condurre una battaglia politica per far prevalere certe posizioni dentro alla Dc. L’orizzonte di un La Torre guardingo non era un accordo di vertice, ma mettere insieme le basi popolari dei due partiti. Come gli riuscì poi a Comiso, un’alleanza trasversale avversa l’installazione dei 112 missili Cruise.

«(…) Dobbiamo operare perché all’interno della Dc si determinino schieramenti che tendano a isolare i gruppi collegati alle posizioni più retrive, per suscitare in quel partito una tensione antifascista. Noi diciamo che occorre determinare ed accelerare l’incontro, nel senso di partecipazione della componente comunista alla gestione del potere regionale nel Mezzogiorno, come esigenza vitale per la democrazia. Farsi carico della crisi e degli sbocchi a tutte le questioni aperte. Dichiariamo di volerlo fare con gli altri, con tutte le forze democratiche e antifasciste e perciò ricerchiamo l’intesa con la Dc. Per uscire dalla crisi crediamo che ci voglia la partecipazione delle forze democratiche della Dc. Occorre avere il convincimento che per portare avanti il processo di sviluppo della democrazia nel nostro Paese, per realizzare le trasformazioni sociali, per andare avanti sulla via italiana al socialismo, dobbiamo avere una grande componente cattolica e questa componente cattolica si traduce in forze decisive della Dc come partito politico», da  La Dc e il Mezzogiorno.

Sergio Mattarella testimoniò così nel processo per l’omicidio del fratello:

«(…) Per Piersanti questa attenzione verso il PCI doveva rappresentare insieme una sponda essenziale per nuovi indirizzi politici e una condizione utile per spingere sia il partito nel suo complesso sia l’intero sistema politico regionale a comportamenti politici e amministrativi diversi dal passato e più coerenti con la posizione di rinnovamento».

Altri nella Dc prospettarono invece l’annacquamento dell’opposizione dei comunisti, inglobati nel sistema di potere regionale. Il 13 agosto 1976, praticamente in contemporanea con il varo a Roma del governo andreottiano della “non sfiducia”, l’ottava legislatura siciliana si aprì con il governo presieduto dal democristiano Angelo Bonfiglio e sostenuto da due maggioranze: quella quadripartitica (Dc-Psi-Psdi-Pri) di governo e quella di programma con il Pci. Pancrazio De Pasquale, compagno di La Torre nelle lotte contadine, presidente dell’Assemblea regionale. Questa maggioranza variabile, che talvolta assomigliò a una gestione consociativa della spesa pubblica, durò fino all’autunno 1977.

Il 9 febbraio 1978 Mattarella, da Presidente della Regione, prese la responsabilità di una collaborazione diretta e aperta con i comunisti:
«Si è aperta così, sulla base della valutazione dei sei partiti, una fase politica nuova che costituisce il coerente sviluppo di quella delle intese programmatiche e che fa registrare, ovviamente, il superamento dei precedenti rapporti fondati sulla individuazione di area di governo e area di programma», da L’Ora, 10 febbraio 1978.

Il Pci rientrò nella maggioranza per la prima volta dall’esperienza dei governi di unità nazionale con un impatto di rilevanza internazionale. Il 16 marzo 1978 il sequestro in via Fani di Aldo Moro minò un percorso di per sé accidentato. «È la fine anche per noi», disse Mattarella a Leoluca Orlando. Palermo come Roma. La partita politica che si gioca in Sicilia è parte inseparabile della battaglia nazionale per la difesa e il rinnovamento della democrazia, scrisse La Torre su L’Unità l’8 gennaio 1980.

«(…) Vorremmo richiamare ancora una volta l’attenzione su una analogia politica impressionante. Allora, per colpire Moro, fu scelto il giorno in cui la Camera stava per discutere la fiducia al governo di solidarietà nazionale. Oggi si colpisce Mattarella mentre è aperta una crisi per la vita della Regione siciliana. Mattarella era un punto di riferimento decisivo per questo confronto politico. Siamo di fronte a una scalata terroristica che colpisce sempre più in alto. E su due versanti: da un lato quello degli onesti servitori dello Stato, per creare panico tra le forze dell’ordine e la magistratura, e dall’altro quello di determinati esponenti democristiani quelli più esposti nella battaglia di rinnovamento in un quadro di unità democratica. L’uccisione di Mattarella avviene anche alla vigilia dei congressi regionali e nazionale della Dc. Ma siamo consapevoli che alcune componenti di questo partito sono collegate con il sistema di potere mafioso. E anche nella Dc è in atto uno scontro fra gli uomini che come Mattarella sono impegnati per il cambiamento e quanti difendono tenacemente il sistema di potere mafioso perché sanno che esso è lo strumento per la loro sopravvivenza politica».

All’ordine del giorno del patto autonomista e dunque del governo Mattarella s’intrecciavano tre questioni non procrastinabili: la legge regionale sulla programmazione (numero 16 del 10 luglio 1978) che doveva restituire trasparenza al bilancio e all’impiego delle risorse pubbliche; la legge sull’urbanistica, che vide la luce nel dicembre 1978 a sette anni dall’inizio del dibattito, e quella sugli appalti (decreto di legge numero 447 del 5 luglio 1978). Quest’ultima uscì ammorbidita dall’Assemblea, lasciando all’assessore ai lavori pubblici la discrezionalità su quali imprese invitare e quali escludere dalle gare. Il governo regionale subì il logoramento della pesante opposizione interna conservatrice alla Democrazia cristiana.

Al tramonto della stagione della solidarietà nazionale corrispose quello della solidarietà autonomista. Il Pci continuava a stigmatizzare le lentezze nel rinnovamento, il malgoverno di alcuni assessorati, oltre che lo squilibrio di fondo fra la maggioranza consiliare pentapartitica e un governo regionale animato ancora dalla conventio ad excludendum. La richiesta era di un effettivo «governo di unità autonomista». Il 5 marzo 1979 il Pci siciliano ufficializzò la rottura e dunque il ritiro dalla maggioranza. Si dimise la giunta del governo Mattarella, mentre a Roma con il quinto governo Andreotti, costituito il 20 marzo ’79, il Pci tornò all’opposizione.

«(…) All’inizio degli anni ’70, con il manifestarsi dei primi sintomi della crisi economica e dello spostamento a destra dell’elettorato siciliano noi comunisti rilanciammo una strategia di unità autonomista sulla base dell’esigenza oggettiva di raccogliere tutte le forze capaci di contrastare gli effetti della crisi. Con quella strategia si ebbe anche in Sicilia la nostra avanzata elettorale del ’75 e del ’76. Si concordarono dei programmi di risanamento e rinnovamento delle strutture economiche e di riforma della Regione. Ma la Dc al di là degli stessi propositi iniziali di una parte del suo gruppo dirigente, finì col bloccare ogni opera di risanamento e di riforma che intaccasse il suo sistema di potere, provocando il fallimento di quell’esperienza. Ci fu allora un rinchiudersi nel gioco di vertice e un’incapacità del Pci di suscitare adeguati movimenti di lotta per l’attuazione dei programmi via via concordati. Ma nella valutazione di quella vicenda non bisogna dimenticare la virulenza della controffensiva delle forze conservatrici e del potere mafioso per ricacciare indietro la situazione siciliana», da un estratto di Pace e autonomia, base del rilancio unitario, 4 dicembre 1981, per Rinascita.

La Torre riannodò i fili dal ritrovamento del cadavere dell’onorevole Aldo Moro in via Michelangelo Caetani all’efferata esecuzione di Michele Reina, consumatasi il 9 marzo 1979, che a Occhetto aveva confidato l’angoscia per la propria incolumità, a causa dell’apertura al Pci.

«(…) Io sono rimasto molto meravigliato per il modo in cui la Dc ha cercato di dimenticare e far dimenticare questo gravissimo episodio. Certo Reina era parte integrante del sistema di potere della Dc a Palermo, con le sue poche luci e le sue molte ombre. Sta di fatto, però, che Reina, negli ultimi anni, assunta l’importante carica di segretario provinciale della Dc, si era schierato con le posizioni politiche più avanzate, sostenendo la necessità dell’incontro con i comunisti. In ciò contrapponendosi ad altre forze potentissime della Dc palermitana. Tutti sanno che l’ascesa di Reina aveva coinciso con la progressiva riduzione di potere, fino a una certa emarginazione, dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino. Il quale è invece ritornato a dettar legge nella Dc palermitana e al Comune di Palermo proprio dopo l’assassinio di Reina. Ciancimino ha trovato il suo nuovo protettore nel ministro della Difesa Attilio Ruffini. Ciancimino, benché emarginato politicamente, anche per i colpi ricevuti dalla Commissione antimafia, ha sempre controllato una fetta importante dell’elettorato palermitano e degli iscritti alla Dc attraverso quel groviglio di interessi economici, politici e mafiosi che l’antimafia ha documentato», Chi si muove è Ciancimino, da un’intervista a Onofrio Pirrotta, Il Mondo, 26 ottobre 1979.

“Farsi strada a colpi di pistola”, così riassunse alla fidata giornalista di Panorama Chiara Valentini la metodologia del terrorismo di matrice politica e mafiosa:

«(…) Accanto al terrorismo delle Brigate Rosse si vuol aprire un altro fronte quello del terrorismo mafioso. Ci troviamo di fronte a un magma oscuro e manca la volontà politica di venirne a capo. Perché la Dc, almeno in alcuni suoi settori, fa parte di questo gioco. Ed è per questo che non sembra disposta oggi come non lo era ieri a tagliare il nodo dei rapporti tra mafia e potere politico. La mafia è un sistema di potere che si alimenta della complicità politica. Ed esempi come quello di Ciancimino non possono che darle fiato. Come le dà fiato il comportamento di molti capicorrente democristiani, che in occasione delle elezioni e ora in vista del congresso fanno a gara per assicurarsi l’appoggio di capibanda mafiosi».

A distanza di tre mesi da questa intervista, il 6 gennaio 1980, il quadro s’inasprì con l’omicidio del presidente Mattarella. Un evento che ferì nel profondo La Torre. A Lucio Caracciolo, su La Repubblica, ribadì la propria chiave interpretativa della catena di delitti che colpirono i massimi dirigenti democristiani favorevoli al governo di unità autonomistica.

«(…) In Sicilia è messa in discussione la dialettica democratica. Ora si ammazzano i politici che fanno una certa politica di apertura, uno dopo l’altro. Il governo deve intervenire, colpire la trama palermitana che alimenta il fuoco dei terroristi, avviare il programma di risanamento dell’isola. E il gruppo dirigente nazionale della Dc deve reagire, perché fra l’assassinio di Moro e quello di Mattarella corre uno stesso filo, lo stesso piano antidemocratico e reazionario».


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