Questa intervista è uscita su Rolling Stone. Di Christian Raimo con la collaborazione di Giona Mason. Grazie a Petra Khalil per il supporto.
La ragione per cui mi è venuta voglia di farti questa intervista in realtà è semplice. Fino a qualche mese fa – probabilmente per un pregiudizio negativo – avevo letto pochissimo di tuo. Credo Io non ho paura, e forse il racconto Seratina nell’antologia dei Cannibali. Poi l’anno scorso, a scuola, una mia studentessa mi ha prestato Che la festa cominci. Io spesso le prestavo dei libri, e lei mi ha detto: “Le presto questo prof”. Me lo sono preso e me lo sono letto in due giorni e mi è piaciuto molto: mi è piaciuto sia da lettore che da scrittore, cioé da persona che i libri li legge anche, come dire, professionalmente.
Quindi ho riflettuto sul pregiudizio che quello che scrivi un po’ si porta dietro. Ci sono due famiglie di lettori: una di lettori molto appassionati, che ti segue qualunque cosa fai – sei evidentemente uno scrittore che ha dei fan – e poi c’è la famiglia della critica, che soprattutto in Italia è abbastanza disattenta, disomogenea, spesso sporadica. C’era questa tua intervista del 2007 in cui, dopo che hai vinto lo Strega, in qualche modo questa lamentela la esprimevi tu stesso. Ci furono un paio di recensioni abbastanza critiche di Cortellessa e di Guglielmi a cui tu non reagisti in maniera piccata, ma riconoscesti di avere questa strana doppia lettura: da una parte i lettori – molto attenti, e grazie alla Rete anche estremamente capillari – e dall’altra i cosiddetti critici, cioé quelle persone che dovrebbero farti crescere da un punto di vista della scrittura, che invece secondo te erano più spesso dei banali liquidatori… Perché, secondo te? Che cosa è che è mancato? Come ti piacerebbe fosse stato, invece, il tuo rapporto con la critica? Come la imposteresti questa intervista tu? Io ho letto una marea di tue interviste. Pochissime di queste interviste ti chiedono…
Parlo soprattutto di me stesso.
Parli di te stesso, parli dei temi di cui parlano i libri, spesso parli anche di cose che non c’entrano niente con la letteratura: i film, i videogiochi. Ti chiedono cose della società. Pochissime interviste ti chiedono di come scrivi, di che libri stai leggendo.
All’inizio, già con Branchie, l’attenzione dei critici è stata molto alta nei miei confronti. È stata colta la novità delle mie cose rispetto a quello che era il panorama italiano precedente. Ho sempre avuto delle critiche meravigliose: lo stesso Guglielmi in realtà ha sempre scritto delle cose estremamente positive. In generale, la cosa che invece mi lascia perplesso – ma non riguarda solo me, è un’osservazione proprio in generale – è che non c’è quasi mai una vera attenzione al libro inteso come scrittura, struttura, lingua. Ma ripeto, non credo sia solo nei miei confronti: credo riguardi tutti gli scrittori, quasi nessuno escluso. Per contro, da qualche tempo soprattutto in Rete c’è una “scuola” di scrittori – che più o meno o hanno la mia età, o più giovani come te – che invece porta avanti un tipo di critica più approfondita. È una cosa che in effetti mi riguarda fino a un certo punto, e per una semplice ragione: quando tu hai molto successo, per quel tipo di critica a un certo punto sparisci. Ti possono bollare, possono scrivere che il libro non è piaciuto, ma non entreranno mai in merito al libro stesso, a quello che significa la scrittura, a cosa volevi raccontare – che invece è ciò che io normalmente, da scrittore, faccio sui libri degli altri. Questo però credo sia un problema generale, non solo nei miei confronti. Non leggo mai delle recensioni particolarmente approfondite.
Una cosa che pensavo rispetto alla tua scrittura – e rispetto anche al mio pregiudizio, alla mia distanza iniziale – era che evidentemente a me mancava un pezzo di immaginario di riferimento, un pezzo che invece mi sembra tu maneggi benissimo… Il tuo immaginario – così come emerge nei racconti, ma anche in alcune sottotrame di Che la festa cominci, o nelle due storie digressive di Ti prendo e ti porto via – è fatto anche di letteratura di genere, di televisione non soltanto italiana, di videogiochi, di narrazioni non solo letterarie, soprattutto straniere, che probabilmente in Italia si masticano ancora poco… I tuoi modelli sono dei luoghi che effettivamente la maggior parte degli altri altri scrittori, in Italia, non frequentano o comunque non sanno maneggiare. Questo ti permette una specie di estraneità: ci sei tu, ma non è che ci sia un panorama di scrittori simili a te. Mi rendo conto che, come molti dei critici che conosco, io stesso – nonostante sia aperto alla cultura pop – ai videogiochi ci ho giocato pochissimo, e la letteratura di genere, che sia il fantasy o la letteratura gotica, la conosco pochissimo, quei codici non li so comprendere, non ne riconosco le derivazioni, la plasmabilità. Dunque, il parametro che uso per giudicare un tuo libro “da critico” è un parametro che coglie dei pezzi, ma ne perde per strada molti altri… La scorsa estate mi raccontavi l’idea di un racconto dalla quale era ovvio che tu le storie, l’ispirazione, le vai a prendere in luoghi che io – preferendo magari leggere la saggistica – frequento molto meno. Tu hai la percezione che c’è questo mondo cui tu hai accesso e che è differente da quello dove vive il resto della comunità degli altri letterati, dagli altri scrittori? Non so se è una domanda inutile…
No, non è una domanda inutile. Probabilmente i miei libri hanno una serie di cose un po’ strane rispetto al panorama tipico. Io ad esempio ci sono pochissimo, nei miei libri. La mia vita non appare, l’autore scompare in quello che racconta. Potrebbe essere chiunque. Leggendo i miei libri – credo – non ci si fa un’immagine di chi possa essere l’autore del libro. Poi sono molto diversi tra di loro – anche se sono pochissimi quelli che colgono le differenze profonde che ci sono tra un libro e un altro. Esiste un filone che comprende Io non ho paura o Io e te che in qualche modo si connota per l’uso della prima persona: lì la costruzione è più semplice, c’è un “io” che racconta qualcosa legato, di solito, all’adolescenza. Sono dei libri che non hanno un cazzo a che fare con Che la festa cominci o Come dio comanda, ma neanche con Ti prendo e ti porto via, libri il cui tono e il tipo di influenza non ha nulla a che fare con i videogiochi, l’horror, la letteratura di genere. È un po’ strano, lo so: coi generi io ci gioco e mi diverto, ma non sono classificabile come autore “di genere”, non possono dire “Ammaniti è uno scrittore di thriller, Ammaniti è uno scrittore di fantascienza o fantasy”. Le storie che racconto sono estremamente italiane, però partono da premesse che hanno a che fare con le cose che mi interessano. Se ripenso ai primi libri, ritrovo l’aspetto della mia formazione scientifica, i miei studi di biologia… Da questo punto di vista i miei libri sono difficili da maneggiare, sì. Probabilmente sarei stato liquidato più facilmente se avessi scritto un “tipico” thriller. Ma, allo stesso tempo, anche quando scrivo un racconto horror, i personaggi sono personaggi tipicamente italiani nei quali i lettori, se pure non si riconoscono, almeno sanno di chi cazzo sto parlando, perché conoscono quel contesto: ad esempio sono degli sfigatoni a cui succede qualche cosa. Quindi è vero quello che dicevi tu: cioé che se non sai decifrare bene quell’immaginario, se non ti appartiene, allora dirai: “Vabbè, Ammaniti è questa cosa” e stop”.
Una volta hai detto che i tuoi libri sono “tipicamente italiani”. Cosa che, se uno prova a metterli insieme, è secondo me abbastanza evidente, sia un punto di vista geografico che da un punto di vista storico. In più, per certi versi è come se tu volessi raccontare l’Italia simultaneamente da due punti di vista: quello della periferia e quello della provincia, che forse sono le due lenti deformanti più interessanti. Varrano in Come Dio comanda, Acqua Traverse in Io non ho paura, Ischiano Scalo in Ti prendo e ti porto via sono tre paesi inventati che però rispondono molto precisamente a tre anime di un’Italia di provincia: sfigata, evidentemente marginale. E dall’altra parte, rispetto alla prospettiva storica, mi interessava capire come rielabori il passato italiano. Ovviamente ci sono gli anni ’80, i ’90, gli anni delle feste, quelli delle illusioni, ma poi c’è anche il ‘78: non a caso – e non sarò certo il primo a coglierlo… – in Io non ho paura ad essere trasfigurata è la storia del rapimento di Aldo Moro… Quando l’ho letto probabilmente ci ho visto un sentimento inconsapevole, riandavo con l’inconscio ai grandi rapimenti – Marco Fiora, Carlo Celadon… io da bambino pregavo addirittura per Celadon e per Fiora perché li liberassero – e quella cosa lì rimanda (tu sei appunto una decina d’anni più grande di me) a un sentimento inconsapevole, infantile o adolescenziale, di un dolore che non ha una precisa interpretazione, né una filologia per la memoria. Che tiene insieme le Brigate Rosse, i rapimenti, un’Italia molto più violenta di quella in cui per fortuna abbiamo vissuto noi, che evocava un dolore che si depositava nei sogni, nell’immaginario, nell’inconscio. Tutto ciò racconta una tua precisa idea sull’Italia, nonostante i tuoi romanzi non siano mai politici. Come, del resto, non sei mai uno scrittore espressamente civile: fai delle battaglie come quella per le foreste, per le politiche culturali legate alle conquiste democratiche, ma non sei uno scrittore in prima linea nelle battaglie politiche, qualunque esse siano. Mentre leggevo tutti i libri, però, mi sono detto: “ok, non sarà mai direttamente civile, però l’Italia la racconta veramente, si capisce che dietro c’è una qualche idea di un Grande Romanzo italiano, o di una controstoria italiana”. Probabilmente raccontata dalla parte di chi l’ha ricevuta, di chi è stato spettatore, testimone, l’ha recepita pur non avendola fatta.
Come dici tu, faccio fatica ad avere qualsiasi forma di impegno diretto sulle cose. È soprattutto la retorica dell’impegno a mettermi in difficoltà: lo scrittore che parla e spiega i problemi l’ho sempre trovato una figura molto fastidiosa. Già ci sono quelli che lo sanno fare benissimo, mentre io non lo so fare. Questo aspetto del mestiere di scrittore – per cui poi all’improvviso tu diventi uno che parla e che dice quello che pensa – l’ho sempre trovato più come un accessorio, e come tale non indispensabile. Non era un mio problema, il mio problema era raccontare delle storie. Detto questo, sì, credo di essere uno scrittore sociale nel senso che mi è sempre interessata la vita ai margini. Ho sempre pensato che – nella narrazione di qualsiasi personaggio, dai peggiori ai migliori – quello che cercavo era la capacità di raccontare un punto di vista. E di mettere il lettore nella condizione di viverlo e di dire, per esempio in Come dio comanda, “Questo è un mezzo nazi-fascista, odia le donne, odia gli stranieri, però quella roba lì nasce da un sentimento di timore, di paura”. Un personaggio così, quando riesci a raccontarlo, dovrà avere la capacità di far risuonare le stesse paure che prova anche il lettore. Questo vuol dire “familiarizzare”, e costruire un personaggio che non è mai univoco: cioè che se da una parte è stronzo, dall’altra invece ti fa pena… Genera cioè un sentimento di misericordia: lo stesso che io ho sempre avuto nei confronti di tutti i miei personaggi, anche dei peggiori. Questo approccio permette di raccontare situazione di margine delle quale raramente si legge, abitate da personaggi di cui ancor più raramente ci si occupa, se non all’interno – per dire – di un libro sugli ultras. Difficilmente la letteratura italiana parla di queste persone. Al contrario della letteratura americana, che invece lo fa spessissimo.
Oltre a questa geografia in cui ci sono appunto Ischiano Scalo, Varrano , Acqua Traverse, oltre a questa provincia inventata, a questa Macondo di serie B, nei tuoi libri è nei tuoi racconti c’è pure Roma. Una Roma nascosta nelle ville, trasfigurata nei tuguri, appesa tra la periferia e i castelli romani, nell’hinterland. Una Roma che è sprawl; una Roma per molti versi non realistica, una cintura urbana cresciuta intorno al Raccordo Anulare. Che rapporto hai con Roma, dunque? Proprio come scrittore, intendo. Se l’Italia che hai provato a costruire era una provincia dominata dall’abusivismo edilizi, costellata da palazzi non finiti, che idea hai invece rispetto a Roma?
Roma mi ha sempre affascinato, in particolare il fatto che di Roma ci fosse tutto un versante che non veniva mai raccontato, e che non era diverso da quando Romero all’improvviso ti racconta dell’arrivo dei morti viventi… Poi tieni conto che sono cresciuto in un ambiente borghese, il mondo che ho frequentato è quello dei Parioli: una realtà di cui un altro – mi viene in mente ad esempio Alessandro Piperno – avrebbe forse privilegiato il lato fatto di drammi borghesi… Io invece ho sempre provato a mettermi nella condizione di non essere familiare con i luoghi che racconto: più individuavo delle specie di crepe nel tessuto della città – degli imbuti che prendevano te, ragazzetto fighetto dei Parioli, e ti risucchiavano fuori, in posti assurdi, dove incontravi qualcosa di inaspettato – più sentivo che il mio piacere di raccontare aumentava e, paradossalmente, lo sentivo familiare. Non ho mai vissuto in periferia, però l’ho frequentata, questo sì. Roma l’ho girata tutta quanta come un pazzo, ma non ho mai avuto una particolare passione per la periferia, come invece è stato per molti altri scrittori.
Mai stato pasoliniano?
Mai. Per certi versi sono anche uno abbastanza pauroso nell’affrontare cose che non conosco. Credo però di avere un buono spirito di osservazione rispetto alla costruzione dei personaggi. Raccontare personaggi e situazioni che non mi appartenevano l’ho sempre trovato una grande motivazione: meno mi appartenevano, più mi sembrava che fosse eccitante raccontarli, perché era un’avventura innanzitutto per me stesso. I miei personaggi in genere sono creature abbastanza semplici che, improvvisamente, si trovano in circostanze diverse da quelle a loro abituali, e lì reagiscono come reagirebbe chiunque di fronte all’imprevisto: tirando fuori il meglio e il peggio di sé. Se guardi alle ambientazioni delle mie storie, vedrai che – tranne Che la festa cominci – a Roma ho ambientato soltanto racconti brevi, dove le relazioni della comunità quasi sono invisibili. Avventure, preferibilmente notturne, in cui il protagonista da un momento all’altro è come finisse dentro a un buco, un buco al di là del quale la città è uguale a prima, ma al tempo stesso smette di essere familiare. Nelle storie ambientate a Varrano, a Acqua Traversa, lì invece è come se costruissi degli acquari, degli ecosistemi: costruisco da zero tutte le relazioni che intercorrono tra le persone, e dunque mi sento molto più a mio agio nel raccontare. A Roma non ho mai creato dei piccoli mondi così. Forse giusto L’ultimo capodanno, ma anche lì tutti i personaggi è come se fossero tutti slegati l’uno dall’altro, e infatti finiscono per combattere uno contro l’altro. Di tutti i libri che ho scritto, l’unico personaggio che è in qualche modo ben piantato all’interno di Roma – oltre a raffigurarne la sua élite intellettuale – è lo scrittore Fabrizio Ciba, proprio perché è quello che è paradossalmente più autobiografico.
Gli adulti nei tuoi racconti sono personaggi spesso gretti, a cui capitano delle avventure che ne evidenziano una meschinità profonda, in alcuni casi pure la disperazione e ideologie becere. In genere finiscono malissimo, anche da un punto di vista fisico: muoiono in maniera rocambolesca, ad esempio… I ragazzi invece no: è come ci fosse una mano che li protegge, sempre. Di questo probabilmente ne sei consapevole: con i tuoi personaggi adulti usi il tono della satira, li esasperi, e se il lettore arriva comunque a simpatizzare con loro o addirittura ad amarli nonostante quello che fanno o sono, è perché in fondo li vede come un po’ bidimensionali. I ragazzini invece, come quelli in Ti prendo e ti porto via, o Io non ho paura, o Io e te, sono tridimensionali: e hanno una forma di innocenza mista a onnipotenza, e in definitiva di incolpevolezza, che li salva. Gli adulti tutti condannati, i ragazzini tutti salvi…
È vero. Ma è vero perché questo è un mio pensiero sulla vita: quando si diventa adulti non si cambia più, non ci sono più gli spazi per poter cambiare. Come adulto puoi solo esasperare i tuoi comportamenti: oppure puoi provare a cambiare, ma inevitabilmente verrai sopraffatto dalla tua stessa storia. L’adolescenza al contrario è un periodo di grande trasformazione, e dunque anche di speranza. Credo che anche il lettore voglia condividere questa speranza, riconoscendo nell’adolescente dei gesti che in passato sono appartenuti pure a lui. Nei miei libri poi questi gesti sono estremizzati, perché il mio non è un tipo di scrittura adatto a raccontare la quotidianità attraverso la riflessione, quanto attraverso dei fatti concreti. Della speranza degli adulti invece non me ne frega niente: di solito mi diverto a condannarli, oppure mi limito a provarne profonda pietà; penso al personaggio di Flora Palmieri, la professoressa, che è una poveraccia condannata a rimanere prigioniera dal suo malessere.
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