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Sapere senza il bisogno (finalmente) di prove. Il cinema di Álex de la Iglesia

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Questo pezzo è uscito su Orwell, inserto culturale di Pubblico.

Immaginatevi uno dei tanti film italiani sul terrorismo scomodi in via istituzionale e dunque esteticamente di regime, a un certo punto del quale, la mattina del 9 maggio 1978, dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, un clown pluriomicida con il volto ustionato accosti casualmente un’utilitaria con dentro Morucci, Moretti, Gallinari e la Faranda, li guardi catatonico e domandi: “e voi, di quale circo fate parte?”

Impossibile immaginarlo, e infatti non siamo in Italia, così come l’oggetto dell’attentato non è Aldo Moro ma Carrero Blanco, capo del governo spagnolo sotto il franchismo, fatto esplodere dai separatisti dell’ETA il 20 dicembre 1973 mentre tornava in auto dalla messa. Il film in questione si intitola Balada Triste de Trompeta (dall’omonima canzone di Raphael), lo firma il post-almodovariano Álex de la Iglesia e, pur avendo vinto il Leone D’Argento due anni fa, esce nel nostro paese solo ora sotto un’intestazione sanremese: Ballata dell’odio e dell’amore.

Si tratta di un’opera eccessiva, barocca, sanguinolenta, sovrabbondante di allegorie pesantissime, capace di non retrocedere davanti alla tentazione di cremare sconsideratamente la potenza di Goya, il geniale opportunismo di Dalì, la sommità di Cervantes, l’omaggio alla Catalogna ridotto ante tempo a kitsch di stato da Gaudì e poi purificato da Orwell pur di restituire all’incubo di un paese infetto da franchismo e clericofascismo un trauma artistico di pari portata. Si tratta, vale a dire, del film nel quale nessun regista italiano (Giordano con Piazza Fontana, Vicari con la Diaz, persino l’onirismo senza fase rem di Bellocchio con Moro) ha osato avventurarsi, preferendo il suicidio sull’altare della ricostruzione dei fatti al sospetto che un Kurtz perso nella jungla a citare Rimbaud dica la verità sul Vietnam meglio di chiunque.

Ci vuole un Orson Welles per immaginare Charles Foster Kane, mentre un citizen Berlusoni ha solo bisogno della buona volontà di un archivista. Ma veniamo alla Balada. In un circo molto felliniano ci sono due clown perfettamente speculari. Il clown allegro è violento e semialcolizzato, venera i bambini e picchia la trapezista che lo ricambia di un amore perverso e tumefatto. Il clown triste è un ragazzone impacciato, timido con le donne, segretamente orripilato dai bambini che pure dovrebbe intrattenere. Suo padre però, anch’egli un clown (qui il colpo di genio antiretorico di de la Iglesia) era un repubblicano perseguitato dai franchisti il quale, senza che il figlio quasi se ne accorga, riesce a trasmettergli  il seme di un odio e una vendetta che esploderanno quando anche lui (il clown triste) si innamorerà della stessa trapezista, tirando fuori un mostro che cova sin dai giorni della presa di Madrid.

In questo modo, un conflitto amoroso da Cime tempestose si trasforma in un viaggio allucinante negli anni della dittatura, con i due clown che si affrontano a colpi sempre più duri e meschini, e arrivano perfino a sfigurarsi fisicamente sostituendo la provvisorietà di una maschera con il definitivo segno dello sfregio, di pari passo con un paese in grado di sovrapporre al volto del regime quello della società dello spettacolo giunta nel frattempo in Spagna (sono pur sempre gli anni Settanta nell’Europa occidentale) coi pantaloni a zampa d’elefante, le discoteche e le canzoni pop di Marisol.

Se Almodovar poteva illudersi che la fine del franchismo liberasse in modo permanente un’energia salvifica, il suo allievo individua in un interminabile 1973 l’anno stregato, il centro propulsivo di un maleficio che non cessa di sortire effetti. La maledizione che grava su un paese è di solito cosa troppo antica e vasta per finire in un qualunque d-day, e solo chi aveva dieci anni quando Franco fu sepolto nell’assurda Valle de los Caídos può oggi capirlo forse così in profondità da regalargli la lente deformante che merita. Tanto per dire: a un certo punto del film, il clown triste si ritrova a lavorare come cane da riporto nelle battute di caccia organizzate dagli sgherri del generalissimo, davanti a cui compare nudo tenendo in bocca una poiana.

Pur non toccando le vette del capolavoro, un film come quello di de la Iglesia è un prezioso insegnamento per almeno due motivi. Primo. Al pari della Spagna, il nostro è un paese in cui i mali storici ritornano in forme sempre più tristi e spaventose, e sempre più ambigue di quanto vorremmo. Secondo. Con la scusa del ritorno al realismo, nell’Italia dell’ultimo decennio si è creduto che l’arte potesse o addirittura dovesse fare a meno dell’invenzione in nome dell’ansia documentaristica. Quando Pasolini scrive “io so, ma non ho le prove, e lo so perché sono un poeta”, non sta auspicando il possesso di chissà quale materiale da produrre in giudizio, ma rivendica i superiori poteri grazie a cui l’arte penetra il velo del reale. Nei cieli percorsi dal volo dei corvi delle poesie di Trakl si intravede già il nazismo. L’arcipelago Gulag popola i sogni di Kafka. E allo stesso Pasolini sarebbe bastata una Draquila repubblichina per non fare ciò che invece gli riuscì – stupendamente, spaventosamente – con Salò o le 120 giornate di Sodoma.


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