(Immagine: Enrico Berlinguer.)
Nel suo articolo di domenica scorsa (“Contro l’abuso della questione morale”, 20 gennaio) per La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera, Pierluigi Battista torna su un tema che da oltre trent’anni periodicamente riaffiora nelle analisi di politica culturale italiana: la questione morale, affrontata per la prima volta da Enrico Berlinguer nella celebre intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, pubblicata da Repubblica il 28 luglio del 1981.
In sintesi Battista afferma che da quel momento in poi si certifica un cambiamento della linea politica del Partito comunista italiano, uscito malconcio dalla strategia del compromesso storico, fallita tragicamente e sostituita da un sostanziale ripiegamento dell’allora segretario nel nome di una “diversità” a detta del giornalista del tutto arbitraria, come dimostrerebbe l’ultima battaglia berlingueriana contro il craxismo dilagante, culminata nella sconfitta subìta sulla scala mobile. Poi il craxismo dilagante ha preso la piega che tutti abbiamo potuto constatare. C’è dell’altro.
Tornando ancora più indietro negli anni, Battista individua nelle teorie di alcuni intellettuali di primo Novecento, su tutti Giovanni Amendola e Piero Gobetti, quella inclinazione a rappresentare due Italie, l’una civile e per l’appunto morale, contrapposta a una maggioranza tendenzialmente “volgare, plebea, maleducata, avida, arraffona”. Da qui l’origine di tutti i mali italici, la guerra perpetua tra guelfi e ghibellini, i buoni e i cattivi dall’altra, che non smette di assillare e attraversare l’intera penisola. In conclusione, secondo Battista al giorno d’oggi (e soprattutto nelle settimane di campagna elettorale) nessuno può permettersi di fregiarsi e di evocare una certa moralità (tanto meno la sinistra), vista la pietosa rappresentazione dello scenario politico alla quale quotidianamente siamo costretti ad assistere. Seppur supportata da indiscutibili riferimenti storici, la tesi esposta dal giornalista non convince nei suoi elementi essenziali. Proviamo in breve a spiegare perché.
Degli errori politici di Enrico Berlinguer a posteriori si è discusso molto. Sbagliamo tutti, e verosimilmente avrà sbagliato anche lui. Ma la questione morale secondo Berlinguer doveva aprire un nuovo confronto (“la via nuova”) tra le forze politiche, senza esaurirsi nel fatto che “essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concessori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e mettere in galera”. Doveva coincidere anche e soprattutto con un programma di risanamento morale e di ricostruzione dell’organizzazione statale e dei metodi di governo; governo al quale il Pci (anche questo dice la storia) non aveva mai partecipato per motivi ormai ben noti. Che poi il segretario del più importante partito comunista occidentale dell’epoca abbia forzato la mano sulla presunta “verginità” dei comunisti italiani in un momento di difficile collocazione politica può esser vero, ma bisogna leggere la forzatura anche nel suo contesto storico. E il contesto storico era quello di un’Italia ancora sconvolta dal terribile decennio appena vissuto, nel quale il sequestro e la morte di Aldo Moro segnarono uno spartiacque decisivo, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze; da questo punto di vista siamo d’accordo con quanto scritto dallo stesso Battista il giorno dopo i funerali di Prospero Gallinari, carceriere e tra gli assassini dello statista democristiano: pugni chiusi e Internazionale hanno riportato per qualche minuto l’orologio indietro nel tempo, senza alcun rispetto per tutte le vittime degli anni di piombo. Ma proprio il tentativo di un compromesso storico con l’odiata Dc dimostra che l’obiettivo politico di Berlinguer non era quello di dividere quanto quello di unire, per il bene del suo e del nostro Paese.
Altro aspetto quello che chiama in causa Piero Gobetti e il suo supposto elitarismo controproducente, laddove ci si riferisce al famoso “Elogio della ghigliottina” gobettiano, che per Battista veniva invocato dal giovane intellettuale torinese “per raddrizzare il legno storto del popolo italiano”. Scrivendo nel novembre del 1922, all’indomani della marcia su Roma, Gobetti invece pretendeva e rivendicava una presa di posizione, il coraggio di offrire il petto e non il fianco alla nascente dittatura, invitava gli italiani a non rimanere un popolo di schiavi per paura o convenienza. Senza dubbio Gobetti aveva la presunzione di sentirsi dalla parte dell’Italia migliore, ma questo lo spingeva a lottare per un Paese migliore, come fece nel 1920 tra le barricate degli operai torinesi, e come cercò di fare costituendo movimenti (e non partiti) legati all’esperienza de “La Rivoluzione Liberale”, la rivista sequestrata e soffocata da Mussolini.
Una rivoluzione liberale a proposito della quale, da giornalista appartenente a quell’area liberal-democratica eterna incompiuta in Italia, Pierluigi Battista dovrebbe raccontarci qualcosa di più, e con più frequenza, visto che qualcuno si permette di nominarla con estrema disinvoltura da almeno un ventennio, con l’evidente intenzione di confondere le acque della storia politica italiana moderna e contemporanea. Perché confondere il liberalismo rivoluzionario con il populismo (come nello stesso numero de La Lettura ben spiega in un’intervista a Dario Di Vico il politologo francese Yves Mény), alla resa dei conti potrebbe rivelarsi un pericolo non da poco nel futuro più immediato.
Anche questa, a pensarci bene, è una questione morale.